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Abbiamo avuto il piacere di intervistare il Maestro Maurizio Baglini che dal 19 al 24 agosto terrà la sua masterclass di pianoforte al Livorno Music Festival. In questa intervista ripercorreremo alcuni momenti significativi della sua carriera, affronteremo il tema dell’ importanza di comunicare con il pubblico e ascolteremo le riflessioni sul suo approccio all’ insegnamento. Iniziamo.
Durante la sua carriera lei ha avuto modo di collaborare con importanti orchestre e direttori, c’è un momento che ricorda con particolare emozione o che comunque ha avuto per lei un impatto importante?
Ce ne sono tanti e quindi rispondere in senso selettivo significa fare un torto a qualcuno. Però mi piace ricordare, a livello di direttori d’orchestra, quello che era Donato Renzetti nel ‘99, perché per me fu un debutto importantissimo con lui a Catania al Teatro Bellini. Ebbi un primo impatto con un direttore davvero prestigioso, importante, con un programma molto impegnativo. Soprattutto lo ricordo perché mi fece scoprire il mondo del teatro. Cioè, quella settimana, oltre alla produzione sinfonica (avevo suonato il Concerto di Mozart K 503 e le Variazioni di Chopin su Là ci darem la mano) mi fece, il Maestro Lorenzetti, scoprire tutto quello che era l’allestimento, perché stavamo lavorando ad un’opera belliniana, c’era la direzione artistica all’epoca di Piero Lattalino… Quindi ricordo quella settimana con particolare, diciamo, curiosità da parte mia perché ero giovanissimo.
Poi, il debutto a Parigi con l’orchestra è stato con Armin Jordàn, (o Jordan, dalla seconda dell’importanza al cognome francofono o meno) che era il padre di Philippe Jordan, che oggi è uno dei massimi direttori d’orchestra viventi, è stato alla Staatsoper di Vienna, all’Opera di Parigi. Armin Jordan mi aprì veramente un mondo nuovo, perché intanto, ecco, mi permise di debuttare in una capitale a livello mondiale della musica importante, in una sala storica: la Salle Gaveau di Parigi. Quindi questo è un ricordo prezioso e molto prestigioso.
Poi, a livello di direttori d’orchestra più recente, c’è stato l’incontro con Daniel Harding, con la Mahler Chamber Orchestra. Quindi anche fare il solista con un direttore di questa portata, oggi implica non più i ricordi nostalgici, ma una responsabilizzazione su quello che purtroppo non è più classificabile come un’esperienza di debutto; ma è per fortuna da un lato, diciamo, la certificazione di una attività magari più conclamata come importante, ma dall’altro ha anche una responsabilizzazione su quello che è l’usufrutto poi della musica colta, musica classica nella socialità di oggi.
Poi l’ultimo episodio che cito è, quello visibile anche sempre in homepage del mio sito, il famoso concerto Tre Quadri di Francesco Filidei a me dedicato, perché fu fatto in pieno lockdown. Quindi, si vede solo l’orchestra, siamo tutti mascherati, c’è Tito Ceccherini sul podio dell’orchestra sinfonica nazionale della Rai, ma dalla diretta EuroRadio e Rai play fu visto da circa mezzo milione di persone quella sera. Poi lo ripetemmo in Scala, quindi a Milano, con una Scala sold-out per il Festival di Milano Musica. Ecco, questa è stata una tappa importante perché è il primo concerto di ampissime dimensioni di cui sono anche dedicatario. Quindi, quando si comincia a essere interpreti di qualcosa che viene scritto per te, vuol dire che intanto gli anni passano, e poi però forse che sono stati anche ben spesi, c’è stata una certa dedizione.
Lei appunto, è stato il dedicatario di Tre Quadri di Francesco Filidei. Come ci si approccia allo studio di un brano di musica contemporanea che non è mai stato eseguito prima?
Allora, premetto che io ho suonato molti capolavori di Salvatore Sciarrino; di Azio Corghi, per esempio, ho suonato tutto quello che per pianoforte è stato scritto praticamente. Quindi, ho avuto anche il privilegio di frequentare questi grandi maestri. Ora con Francesco Filidei c’è una storia anche che tutto sommato raccontata anche nell’ambito livornese, è importante perché siamo due Pisani, figli di non musicisti e di famiglie, che veramente adesso non voglio risultare patetico, ma hanno fatto molta fatica a sbarcare il lunario per farci studiare. Siamo andati a studiare e vivere a Parigi insieme. Francesco racconta sempre che io che avevo da poco vinto il concorso di Montecarlo, ed ero quello “ricco”, gli passavo i vestiti… Cioè, abbiamo davvero fatto quella che è la gavetta, nel senso etimologico del termine, insieme, ed è una bella storia, perché due ragazzi che vengono da una città, per quanto importante, ma di provincia – con tutto il rispetto, anzi proprio nel senso più nobile del termine della provincia – fanno carriera, si ritrovano e Tre Quadri, ha rappresentato peraltro il debutto di Francesco come compositore alla Scala. Io avevo già suonato come interprete. Quindi, c’è una storia, in questo caso specifico, potente dal punto di vista umano, e chiedo scusa per l’aneddoto, ma valeva la pena raccontarlo.
Quindi mi sono sentito anche gratificato, perché se Tre Quadri non fosse venuto bene forse anche per lui la strada sarebbe stata più difficile.
Quindi, detto questo, rispondo alla sua domanda, come ci si approccia? Ci si approccia nel modo più sano e integro possibile, perché non si è condizionati da alcun pregiudizio che invece è dato dalla tradizione esecutiva.
Mi spiego meglio, io dico sempre ai miei allievi che ogni musica che viene affrontata, anche quella di Mozart, Beethoven, Schumann, quella dei compositori con i quali non è più possibile parlare, va affrontata come se si trattasse di musica contemporanea. Innanzitutto, perché lo è, è musica intramontabile, quindi sarà contemporanea a qualsiasi epoca spesso, pensiamo a Beethoven; poi perché se la suoniamo oggi, non potendo cambiare le note – perché la musica classica è la “musica esatta”, come la definiva Bernstein, quindi è scritta così – si deve agire sul fattore interpretativo in senso proprio, intrinseco. Quindi, si agisce su dinamica, timbrica, gogica, il famoso gusto personale, si direbbe al popolo, no? Ma fin dove si può agire?
Beh, si agisce quando si è sinceri nelle proprie idee e quindi dico a tutti che la musica contemporanea, invece, quella dei nostri giorni, scritta oggi, che permette il favoloso privilegio di frequentare il compositore, di poterci parlare di addirittura farci un percorso insieme, perché spesso vengono magari mutati alcuni particolari, perché vengono decisi in base all’interprete. Questo è stato il caso di Tre Quadri, che poi ha avuto un’evoluzione già fa il video visibile, per intenderci, del lockdown e le successive esecuzioni, è stato eseguito più di sei, sette volte, insomma, quindi l’abbiamo anche esportato.
Ecco è l’approccio più sano e più utile, perché è quello che restituisce la bellezza del suono dal vivo in quel momento nell’estemporaneità dell’esecuzione dal vivo. Quindi, sostanzialmente quello più bello e più naturale, se così posso dire, nel senso che dovremmo sempre essere altrettanto vergini, anche quando si suona una musica di cui si conoscono magari interpretazioni, peraltro mirabili. Poi io dico sempre che dopo i livelli storici raggiunti dai grandissimi maestri, parlo di pianisti, quali Horowitz Richter, Benetti, Michelangeli, ora è di attualità anche, purtroppo, il trapasso del maestro Pollini. Cioè, cosa si può fare di me? Meglio nulla. Si può solo fare qualcosa di diverso e quindi l’approccio è quello di rendere contemporanea anche la musica del passato.
Quindi, per certi versi quella della musica di oggi è la sfida materialmente più potente, perché è difficile. Il compositore ha in testa qualcosa, ma neanche lui, finché non ascolta l’esecuzione, sa effettivamente cosa ci sarà, e l’interprete è l’ artigiano che plasma il materiale proprio insieme a tutti gli altri. Poi in questo caso, fra l’altro era strepitosamente accattivante il lavoro, perché il lavoro è stato fatto a tre, anche con Tito Ceccherini dedicatario anche lui dei Tre Quadri, e poi con l’orchestra ad organico ampissimo. Quindi, insomma, c’è stato un arricchimento definitivo, direi.
Lei è tra i pochi virtuosi al mondo a eseguire la Nona Sinfonia di Beethoven nella difficilissima trascrizione di Liszt. Qual è il tipo di preparazione che bisogna fare al fine, non solo di eseguire composizioni così complesse, ma anche di eseguirle davanti a un pubblico?
Allora, intanto dico che è un titolo che ho imparato in un momento, circa 16 anni fa, in cui l’attività non andava bene, come, per fortuna va adesso, quindi per bisogno puro e semplice. Cioè mi fu chiesta, nessuno la faceva; non è che io cerchi il primariato in nessun tipo di frangente. Sì, ho fatto, per esempio, i due dischi degli Studi di Chopin quando avevo poco di vent’anni. Oggi ci sono dei quindicenni che li suonano in maniera strepitosa, ma non è questo. Il fatto è che ci sono titoli che richiedono un impegno tale per cui ci vuole tempo, ci vuole una dedizione, o una vocazione quasi, o appunto, come fu in quel caso (perché fu una commissione Radio France, il debutto ebbe luogo al Museo d’Orsay di Parigi, quindi all’auditorium del Museo d’Orsay), e poi lo sforzo era stato talmente ampio che diventò un pezzo portafortuna, perché poi da lì entrai nel roster della Becca di Universal, con i quali collaboro ancora a livello discografico in esclusiva. Quindi è un pezzo che mi ha fatto cambiare vita in meglio. Però, l’approccio è cercare di capire se intanto un pezzo poco eseguito lo sia perché è troppo difficile, perché non funziona col pubblico, giustamente, come ha detto lei, o se invece è semplicemente una pura e semplice coincidenza, tipo le Sincronicità di Jung, no? A volte boh, è successo così e però da quel momento si vede l’ utilità, io insisto col termine dell’utilità sociale, cioè la funzione emotiva, etica della musica. Nel mio caso lo è stato perché poi in questi anni l’ho eseguita più di 150 volte, una media di 10 esecuzioni all’anno, insomma anche mi ha aperto un mondo. Adesso debutto in Canada e porto con me proprio questo titolo. Spero dentro di me, ma lo porto anche materialmente in un recital a Montreal. Allora nel caso specifico della Nona Sinfonia di Beethoven (perchè poi ho fatto anche la Pastorale negli anni) parlavo l’altro giorno, per esempio, con Gabriele Baldocci, che è un Livornese Doc che vive a Roma, che le sta affrontando tutte, dice però. “La nonna non l’ho fatta”.
Qual è il punto? Innanzitutto, la collocazione culturale e storica del pezzo. Cioè, perché Frantz Liszt ha impiegato 36 anni a trascrivere la Nona Sinfonia di Beethoven per pianoforte, dal momento in cui più di noi era Liszt stesso, conscio del fatto che non sia musica perfettibile, è assoluta, perfetta e quindi che bisogno c’è? Beh, c’è uno spirito di divulgazione. Si parte da un dato storico, le orchestre non erano disponibili, Liszt fa un’opera trascrittiva, letterale.
E oggi se la si propone (cosa che io continuo volentieri a fare) deve avere un alto significato rispetto del trascrittore, perché non dimentichiamo che prima dell’esperienza lisztiana c’erano state sperimentazioni – tra cui anche quella di Richard Wagner sulla Nona Sinfonia, che insomma l’orchestrazione credo di poter dire la conoscesse veramente in maniera sublime; però, non è altrettanto efficace perché non era pianista quanto lo era Liszt.
Allora, io parto dal percorso che ha fatto sì che ci fosse un motivo per cui questa trascrizione poi ha avuto origine. Peraltro, nella Nona Sinfonia c’è stata prima quella bi-pianistica, quindi poi ci sono tutti i gossip, feuilleton che dicono: “Beh, ma Liszt non aveva un rivale degno della sua partnership al pianoforte”, ma questo conta molto poco. Quello che conta è partire dal presupposto che bisogna incoraggiare il pubblico a venire a scoprire la grandezza di questo titano del pianoforte che è stato Liszt, anche allo stesso tempo ideatore, tutto sommato del poema sinfonico, e partire dal presupposto che Liszt fa un’opera di venerazione nei confronti di Beethoven, che è comunque e rimarrà forse il compositore unico a livello di messaggio emotivo contemplato per il cosmo, per l’universo. Cioè Beethoven è il primo che scrive per l’umanità. Liszt è consapevole di questo e io umilmente nel mio dato di traduttore, dato specifico di ruolo di traduttore, devo semplicemente portare al pubblico questa ipotesi che ha un’evoluzione storica che oggi può avere un senso, a condizione che non sia considerata una riduzione, ecco.
Certo, non deve essere facile, è un impegno bello e importante.
Anche per la memoria sì, insomma, fisicamente importante.
Lei ha all’attivo un’intensa attività concertistica, durante le sue masterclass insegna ai suoi allievi anche il giusto atteggiamento mentale da avere prima di salire sul palco?
Ci provo. Cioè, spero di sì. Nel senso che, secondo me, la masterclass non ha senso, de considerata in quanto banco di prova per vedere se quel giovane ha talento più o meno talento, se è bravo, se ha suonato bene, e tanto meno deve essere un riscontro con quello che è il gusto personale del docente in questo caso. Cioè, ovvero se io pretendessi di insegnare ciò che sono nel modo in cui attualmente lo concepisco io, vorrebbe dire che di fatto andrei ad annullare la funzione del didatta, intesa proprio da didasco, dal greco, cioè, tramandare qualche cosa.
Bisogna capire cosa sa esprimere l’allievo, lo studente – spesso poi, nel caso del Livorno Music Festival ci sono dei colleghi che vengono a farsi sentire, cioè, sono giovani già bravissimi, insomma – e come aiutarlo a fare breccia in un mercato, che è obiettivamente difficile e saturo. Quindi, anche l’atteggiamento nei confronti del pubblico, che non è soltanto avere più o meno paura del pubblico, come gestire l’ansia, ma è proprio impostare una strategia, di repertorio possibile, di come proporsi e di come, soprattutto, far sì che la propria individualità sia individualmente riconoscibile. Questo è per me un dato imprescindibile, altrimenti viene meno la funzione della didattica. Io non potrei mai insegnare lo stesso pezzo a due persone allo stesso modo, non non ci riesco, è una sfida e non pretendo di aver ragione nell’agire così, però, è qualcosa che sento come motivazione molto forte, è l’unico modo che ho per esprimere, diciamo una certa competenza acquisita dalle esperienze. Quindi, è evidente che insegnare a suonar bene è una conditio sine qua non, ma non è assolutamente sufficiente. Si diceva una volta in matematica “condizione necessaria, ma non sufficiente”, ecco.
Il punto di partenza, oggi più che mai è insegnare a comunicare qualche cosa. La musica classica ha un urgentissimo bisogno di tornare ad acquisire la funzione morale ed emotiva della comunicazione col pubblico. Non è una questione di sbigliettamento, bandi…. Certo, c’è anche questo, insomma, c’è obiettivamente. Saremmo ipocriti se facessimo finta di ignorare il problema. Cioè, nel senso, la musica classica è contemplata da una percentuale esigua della popolazione mondiale, però bisogna fare in modo che quelli che vengono siano emotivamente toccati da qualcosa che fa sì che per loro diventi una necessità, una esigenza. Nello studente è importante stimolare questa necessità e questa esigenza. Io dico sempre ai giovani affrontare il pubblico è la conditio sine qua non, voi possiate suonare o non suonare. Il che non vuol dire non aver paura del pubblico, anzi spesso se non si ha paura di niente, si comunica poco. Vuol dire però sapersi rapportare, cioè, imparare a capire che l’esecuzione non comincia con la prima nota e non finisce con l’ultima: c’è un prima, un dopo e un durante. Questo è fondamentale per me. Io la penso così, poi so che magari alcuni colleghi non la pensano allo stesso modo, ma essendo io stesso organizzatore e facendo anche il direttore artistico, ho imparato molto in questo senso.
Certo, quindi si deve instaurare proprio un dialogo col pubblico che porti qualcosa ad entrambi, cioè in questo modo proprio si arricchisce il pubblico e si fa anche qui un’azione estremamente importante per l’umanità.
Beh, dovrebbe essere così. In fondo è musica intramontabile, l’abbiamo detto prima. Intramontabile perché? Perché spesso tocca il concetto del sublime, però anche musica che piace molto a chi non la conosce. Quindi, il problema è ricollocarla in modo tale che diventi qualche cosa di percepito dagli altri, dal pubblico. Questo vale sia per Beethoven, che per la musica contemporanea. L’esperienza di Tre Quadri, che abbiamo citato prima, mi fece capire proprio in lockdown, dove tutti eravamo in una condizione di disagio che, per esempio, c’è molto meno pregiudizio nell’adolescente, che non va ai concerti nei confronti della musica contemporanea, rispetto a quella che io chiamo “la borghesia abitudinaria degli abbonati”, con tutto il rispetto, perché ne abbiamo bisogno tutti e non voglio essere classista, anzi, dobbiamo ringraziare. Però bisogna anche avere il coraggio di dire certe cose e sfatare un po’ dei tabù. La dissonanza crea insicurezza, che una certa fascia anagrafica di pubblico non vuole avere. La consonanza mette tutti tranquilli. Oggi, infatti, c’è un’inflazione proprio esagerata, direi, di tutto ciò che è facile, che è immediato. Invece no. La volontà di fare un minimo sforzo c’è. E insegnare, per rispondere alla domanda precedente, a come rapportarsi col pubblico vuol dire essere a mio parere consapevole di questo.
Lei ha dimostrato anche di essere un appassionato del repertorio cameristico, il suonare con altri musicisti può influenzare la crescita artistica di un giovane pianista?
Dovrebbe. Io la trovo personalmente una condizione quasi imperativa, un termine odioso, ma, proprio ieri ho fatto, anzi in 48 ore, ho fatto due esperienze cameristiche, una a Napoli pochi giorni fa con il Quartetto Op. 60 di Brahms e Quartetto di Schumann con pianoforte Op. 47, ieri pomeriggio con La Trota di Schubert, il Sestetto di Mendelssohn, che diventa un pezzo di camerismo quasi allargato, un pezzo di Simonide Braconi che è stato scritto per lo stesso organico de La Trota, quindi la contemporaneità, e poi Märchenbilder di Schumann, quindi di duo. Quindi, una geometria variabile con due violisti importanti. C’era poi anche Francesco Fiore e, con me ieri, c’erano Silvia Chiesa, violoncello, Amerigo Bernardi al Contrabbasso e Gabriele Pieranunzi al violino. Quindi tutte persone con le quali ho condiviso anni di musica da Camera.
Proprio il concerto di ieri, dal duo al sestetto, mi ha fatto capire ancora di più (e sarà così in continuo crescendo anche per la prossima produzione cameristica) quanta esigenza di democraticizzazione c’è nella musica e di gerarchia, di fatto, perché la gerarchizzazione delle voci, la si ottiene se si è rispettosi l’uno dell’altro. È molto vero è che per avere devi dare nella musica da Camera. Troppo spesso è erroneamente considerata una diminutio quasi, no? Spesso si dice: “Ma fa solo un camerismo”. Invece, perché Richter forse è stato il fenomeno più importante del ventesimo secolo nella interpretazione intesa in senso lato? Perché dalla leaderistica al camerismo più anche astruso, per certi versi, al grande solismo con orchestra è riuscito a toccare tutto ciò che la musica può contemplare e poi non dimentichiamo che la musica da camera a livello statistico contempla circa 72-73% della produzione. Quindi, come si fa a bypassarla, ignorarla o non considerarne l’importanza? Chi non la sperimenta a sufficienza, secondo me, poi si trova ad essere vittima di un vero e proprio vulnus.
Certo, perfetto allora maestro io noi la ringraziamo molto per le risposte che ci ha dato e diamo appuntamento a tutti i pianisti che vogliono approfittare di quest’estate per perfezionare la propria arte con, appunto, un maestro del calibro di Maurizio Baglini al Livorno Music Festival le date sono dal 19 Agosto al 24 Agosto
Un bellissimo modo per beneficiare, poi, della costa Toscana. Cioè, voglio dire Livorno – e lo dico da Pisano – la città storicamente più accogliente, l’ha dimostrato anche in tempo di guerra, E’ il porto Mediceo, è la città più generosa umanamente parlando, che si possa, diciamo, scoprire e credo anche che, insomma, sia bello magari avere qualche ora in cui si può andare al mare, si può visitare una Toscana particolare. Magari si può beneficiare di concerti, perché poi il Festival è questo, di assoluto valore. Credo di poter dire che il Livorno Festival sia la compagine internazionale in senso assoluto, che appartiene a Livorno, più blasonata attualmente, insomma, considerando varie forme d’arte, non solo la musica.
La ringraziamo tantissimo anche per questo suo pensiero finale. Allora, la salutiamo e ci diamo appuntamento. Questa è stata a Livorno Music Festival.
Le modalità e procedure di iscrizione alla masterclass sono disponibili alla pagina Modalità di Iscrizione e Quote
Vi ricordiamo che tutti gli studenti del Livorno Music Festival possono partecipare alla selezione per suonare con i maestri sul palco del festival e che alcuni strumentisti potranno partecipare alla selezione per suonare come solisti con l’Orchestra del Conservatorio Mascagni nel concerto del 1° settembre 2024 programmato nel cartellone dei concerti della XIV edizione del Livorno Music Festival. Tutte le informazioni sono disponibili alla pagina dedicata Premi e Concorsi